GIACOMO
LEBRETON
Carissimo
Amico dell’Abbazia di San Giuseppe,
la
sofferenza rimane uno dei più oscuri enigmi dell'esistenza
umana. La sua realtà colpisce tutti gli uomini: nessuno
vi sfugge. Se lo spettacolo del creato apre lo sguardo dell'anima
sull'esistenza di Dio, la sua sapienza, la sua bontà
e la sua provvidenza, la sofferenza che popola il mondo
sembra offuscare quest'immagine. Certuni possono addirittura
esser tentati di negare l'esistenza di Dio: «Se Dio
esiste, perchè tanto male nel mondo?» Infatti,
come mai la nostra vita sulla terra è talmente piena
di dolori e di conflitti? Conflitti fra l'anima che è
immortale, ed il corpo, straziato dalla malattia e dalla
morte; fra la ragione e le passioni, che ci trascinano in
direzioni contrarie; conflitti fra l'uomo e l'universo,
l'uomo che lavora tutti i giorni per trarre di che nutrirsi
da quella terra, che, troppo spesso, lo contraccambia con
carestie e catastrofi. Perchè tante pene?
«Al centro di ogni dolore che colpisce l'uomo, ed
altresì alla base del mondo delle sofferenze, appare
inevitabilmente la domanda: Perchè?» (Giovanni
Paolo II, Lettera Apostolica Salvifici doloris, dell'11
febbraio 1984, sul «Senso cristiano della sofferenza»,
9).
Armonia meravigliosa
La Rivelazione ci insegna che Dio, all'origine, non ha creato
l'uomo in tale stato drammatico. Non gli ha dato soltanto
la qualità di uomo, di «animale ragionevole»,
lo ha, subito, fissato in uno stato di santità, l'ha
rivestito della propria grazia, è andato ad «abitare
in lui». Questo esprime il versetto della Genesi:
Dio ha creato l'uomo a sua immagine e somiglianza (Gen.
1, 26). I Padri della Chiesa hanno visto nell'espressione
a sua somiglianza un'allusione alla grazia santificante
che rendeva l'uomo partecipe della natura divina, «simile
a Dio». La grazia conferita ad Adamo aveva la particolarità
di estendere la propria influenza sulla totalità
dell'essere umano, corpo ed anima, attraverso effetti di
potenza che ci sono ormai ignoti. L'anima dominava pienamente
il corpo, premunendolo contro la sofferenza e la morte;
la ragione, scevra di concupiscenza, governava perfettamente
le passioni; infine, l'uomo regnava veramente sul mondo,
la terra era per lui un giardino di delizie, un paradiso,
senza fatica penosa nè lotta contro la natura.
Tale
armonia meravigliosa che regnava allora, costituiva quel
che viene chiamato «lo stato di giustizia originale».
Doveva essere la sorte dell'uomo, finchè rimaneva
nell'amicizia divina. Ahimè! come ci fa conoscere
la Sacra Scrittura, l'uomo, tentato dal diavolo, ha perso
la grazia che lo legava a Dio. Con questo peccato, ha preferito
se stesso a Dio, e perciò ha disprezzato il suo Creatore,
si è ribellato contro di Lui, rifiutando lo stato
di creatura, e cercando di «divinizzarsi», non
secondo il disegno di Dio, bensì «contro»
Dio: Diventerete come Dio (Gen. 3, 5), aveva detto il serpente
tentatore.
Adamo
perde la grazia, e con essa la felice esistenza nel paradiso
terrestre: morirà: 'Conoscerai la morte'; dovrà
lottare contro le passioni, che lo spingono al male (concupiscenza);
il lavoro sarà penoso per lui: Sia maledetta la terra
per causa tua (Gen. 3, 37 e 17). A causa del peccato, dirà
San Paolo, la morte è entrata nel mondo (Rom. 5,
12), e con la morte tutta la coorte delle sofferenze che
gravano tutti i giorni sull'umanità. Se Dio ha permesso
la caduta di Adamo, con tutte le conseguenze tragiche che
ha comportato, se l'ha tollerata come si tollera un'offesa,
è stato per rispettare la libertà dell'uomo.
Ma all'offesa fatta al suo amore, Dio ha risposto con un
amore ancora più grande: offre il perdono e promette
un Redentore. Più ancora, fa, in un certo modo, causa
comune con l'uomo fin nelle sofferenze.
Compassione molto partecipe
Nell'Antico Testamento, Dio testimonia spesso la sua compassione
e la sua tenerezza per l'uomo che soffre. Ma la venuta del
Salvatore sulla terra rivela in modo più straziante
la solidarietà di Dio con l'umanità che soffre.
Il Vangelo ci mostra Gesù che fa continuamente sue
le miserie dei suoi contemporanei. La sofferenza lo commuove,
lo intenerisce, lo sconvolge, talvolta fino alle lacrime.
Senza curarsi delle usanze, lo si vede andare incontro ai
lebbrosi, gli intoccabili dell'epoca, per introdurre le
dita nelle loro piaghe e sanarle. La sofferenza dei cuori
gli ispira una compassione profonda, come nella scena della
vedova di Naim, che piangeva la morte dell'unico figlio.
Attira tutti coloro che soffrono sul suo Cuore aperto a
tutti i dolori: Venite a me, voi tutti che siete affaticati
e stanchi, ed io vi darò riposo! (Matt. 11, 28).
Ma Dio
ha voluto andare oltre: facendosi uomo, è entrato
lui pure a far parte del numero dei sofferenti. Gesù
ha voluto nascere in una stalla miserabile; ha lavorato
duramente per guadagnarsi il pane quotidiano; ha saputo
cosa fosse la fame, la sete, la stanchezza dei lunghi percorsi
a piedi (ved. Giov. 4, 6); per tre anni, non avrà
dimora, e nemmeno una pietra dove posare il capo (ved. Matt.
8, 20); ha sofferto per l'incomprensione degli uomini, il
loro scherno; lo si è trattato di uomo dedito al
vino ed ai piaceri della tavola. La realtà e la profondità
del suo timore della sofferenza si manifestano particolarmente
nella preghiera al Getsemani: Dio mio, se è possibile,
allontana da me questo calice! Nella Passione, il dolore
fisico ed il dolore morale raggiungono il parossismo. Infine,
Nostro Signore ha voluto unirsi all'uomo fin nel mistero
della morte. Chiunque soffre può dire, di fronte
al Crocifisso: «Anche Lui ha conosciuto questa prova».
Ma se
Gesù è passato per il baratro della sofferenza,
è stato per trasfigurarla e darle una dimensione
affatto nuova: essa è ormai unita all'amore. Se,
in sè, rimane un gran male, la sofferenza è
diventata la base più solida del bene definitivo
dell'uomo, vale a dire dell'eterna salvezza. Essa ci permette
di essere associati a Gesù nell'opera della Redenzione.
Conseguenza del peccato, diventa, grazie alla potenza di
Dio, il mezzo della nostra rinascita morale.
Mistero pasquale
«Senza la Pasqua, il mondo è senza speranza.
Grazie alla Pasqua, la vita assume il suo vero senso...
Ho vissuto nella mia carne e nel mio cuore il mistero della
Passione e della Risurrezione... Siamo tutti chiamati a
morire ed a risuscitare tutti i giorni». Colui che
pronuncia queste parole si chiama Giacomo Lebreton. È
privo della vista ed i suoi avambracci sono amputati delle
mani, dal novembre del 1942.
Era
nel deserto libico. In un plotone di spahi a riposo, Giacomo,
accovacciato davanti ad una cassa di granate, prende uno
dopo l'altro gli esplosivi per disinnescarli. «Lavoravo,
chiacchierando con i commilitoni, racconterà più
tardi. Uno di loro, a mia insaputa, afferra una granata
e la innesca. Poi, spaventato, me la tende. La afferro macchinalmente,
ma capisco subito: sta per esplodere. Devo lanciarla immediatamente!
Ma accanto a me ci sono i commilitoni, e rischio di ammazzarli...
Improvvisamente, un formidabile colpo di gong. Sono immerso
nelle tenebre. Provo a parlare, ma non ci riesco. Mi vedo
già morto».
Figlio
di un ufficiale di marina, Giacomo Lebreton ha lasciato
il castello familiare di Kerval, vicino a Brest, nel giugno
del 1940, a 18 anni, per raggiungere le Forze Francesi Libere
a Londra. Quindi, dopo un lungo periplo nel Medio Oriente,
si è trovato in Libia, di fronte alle truppe del
generale tedesco Rommel. Affronta la morte per la prima
volta: le granate scoppiano da tutte le parti. Molti sono
i morti intorno a lui. Pone a se stesso il problema di Dio:
«In casa, poi a scuola, avevo avuto un'educazione
cristiana. Bruscamente, a 18 anni, ero passato da una vita
protetta ad una vita assolutamente indipendente. Un po'
alla volta, la mia fede si è indebolita, ho cessato
di esser praticante. Ma, di fronte al pericolo, mi ponevo
la questione fondamentale: «Dio esiste? Chi è?
Dopo la morte, è il buco nero?»... La risposta
a queste domande mi sarebbe stata data in modo inaspettato,
attraverso l'esplosione della granata».
Dopo
le prime cure nell'ospedale da campo, Giacomo Lebreton viene
trasferito in un ospedale di Damasco. Per due o tre settimane,
rimane immerso in un vero torpore. Sospetta naturalmente
gravi lesioni oculari, ma ritiene di poter ricuperare la
vista fra sei mesi o, al massimo, un anno. Il tempo aggiusterà
tutto. Ignora, invece, quel che si nasconde sotto le enormi
bende che gli fasciano le estremità degli avambracci:
«Sentivo ancora le mani, come se fossero rimaste contratte
sulla granata: è la ben nota illusione degli amputati.
Quando scoprii la verità, mi ribellai... In Libia,
avevo visto un giorno volatilizzarsi ventun commilitoni,
a seguito di una terribile esplosione; mi ero detto: «La
morte, nel pieno della battaglia, non è nulla, non
la si vede arrivare. Quel che temo più di tutto,
è la perdita di un braccio o di una gamba. Non potrei
sopportarlo...» Ed ora, mi ritrovavo cieco e monco
delle due mani: una quadruplice amputazione. A 21 anni!
Come poteva Dio permettere una simile prova?»
«Accettare» per
non «subire» più
Tuttavia, una suora, francescana missionaria di Maria, che
Giacomo aveva incontrato nel corso di un primo soggiorno
a Damasco, seppe che egli era degente in ospedale. Andò
a trovarlo regolarmente. «Mi parlava di Giobbe, che
non malediceva Dio. Mi citava le parole del Vangelo: Se
il chicco di grano non muore nella terra, non dà
frutto». L'ammalato sente che tali verità gli
penetrano nell'anima. Riprende a pregare e ad accostarsi
ai sacramenti. Accetta perfino di comunicarsi due volte
alla settimana, in seguito, tutti i giorni. Scopre allora
l'amore che ha spinto Gesù, «l'uomo dei dolori»,
a morire per noi sulla Croce. Sente una forza misteriosa
che lo avvicina a Cristo. Grazie al vigore della fede ritrovata,
vede un valore redentore celato nelle sue sofferenze. Allora,
appoggiandosi sulla forza divina e non sulla propria debolezza,
offre eroicamente a Dio gli occhi e le mani. Decide di non
«subire» più la sua prova, ma di «accettarla».
«L'accettazione è una vittoria. Prima di essere
ferito, conoscevo il riso, ma non la gioia, la vera gioia.
Ebbene, ho pianto di gioia sul letto di degenza. Ho perfino
detto alla suora infermiera: «Non ci ho rimesso!»»
L'amore
trasforma i cuori, e dà il suo pieno merito alla
sofferenza accettata. Secondo San Francesco di Sales: «L'amore
divino, non solo addolcisce quel che è amaro, ma
trasforma la croce in letizia, perchè Dio è
Dio di letizia». Giacomo Lebreton ne ha fatto l'esperienza.
La gioia infusa nel cuore dalla grazia, anche in mezzo a
sofferenze, non è una gioia sensibile, ma un appagamento
tranquillo e misterioso, in quella fede che ha fatto dire
a Santa Teresa di Gesù Bambino: «Sulla terra,
tutto mi stanca, tutto mi è di peso... Non trovo
che una gioia, quella di soffrire per Gesù, ma questa
gioia non risentita è al di sopra di qualsiasi gioia!»
(Lettera, 12 marzo 1889).
Ma
allorchè la sofferenza ci reca soltanto tristezza
e sconforto, ricordiamo queste altre parole della «piccola»
Teresa: «Soffriamo, se necessario, con amarezza, senza
coraggio. Gesù ha pur sofferto con tristezza: senza
tristezza, l'anima soffrirebbe?... È confortante
pensare che Gesù, il Forte divino, ha conosciuto
tutte le nostre debolezze, che ha tremato alla vista del
calice amaro, quel calice che un tempo aveva desiderato
tanto ardentemente» (Lettere, 26 aprile 1889 &
26 dicembre 1896). Così, quando soffriamo, pensiamo
che Gesù è presente, compassionevole, accanto
a noi, per aiutarci a portare l'odierna croce.
Amputati di Dio
Giacomo Lebreton ha avuto anche lui, letteralmente, la sua
via di Damasco. «Stranamente, faceva notare, è
da Porta San Paolo che sono entrato in quella città.
San Paolo vi è giunto cieco, e vi ha ritrovato la
vista. Io, vi ho ritrovato una luce infinitamente più
preziosa di quella che ho perduto». Ogni anno, il
5 novembre, annuncerà ai suoi amici: «Oggi,
offro lo champagne – Perchè? – È l'anniversario
del giorno in cui sono diventato cieco!» Nella fede,
riteneva infatti che, secondo le sue proprie parole, «la
sola infermità è quella di essere amputati
di Dio».
«Essere
amputati di Dio», ecco l'opera del peccato mortale.
Il Catechismo della Chiesa Cattolica ci insegna che «agli
occhi della fede, nessun male è più grave
del peccato, e niente ha conseguenze peggiori per gli stessi
peccatori, per la Chiesa e per il mondo intero» (1488).
Nostro Signore ci ha avvertiti che è preferibile
perdere le mani e gli occhi, piuttosto che esser gettati
nella fornace ardente, cioè nell'inferno, dove ci
porta il peccato, che ci distoglie da Dio (ved. Matt. 5,
29-30). La perdita della vita eterna è, senza dubbio,
la massima sofferenza dell'uomo, poichè, perdendola,
egli perde la felicità perfetta cui Dio lo destinava.
Gesù è venuto a liberarci dalla sofferenza
definitiva: la dannazione eterna. «L'unico Figlio
è stato dato all'umanità, prima di tutto,
per proteggere l'uomo contro quel male definitivo... La
missione del Figlio unico consiste nel vincere il peccato
e la morte; il trionfo sul peccato, attraverso l'obbedienza
fino alla morte, ed il trionfo sulla morte, attraverso la
risurrezione» (Salvifici doloris, 14). Distruggendo
il peccato, Gesù ha distrutto il maggiore dei mali
e, nello stesso tempo, la radice di ogni sofferenza, poichè
è a causa del peccato che la sofferenza e la morte
sono entrate nel mondo (ved. Rom. 5, 12). A tutti coloro
che vogliono, è dunque concesso di ottenere la remissione
dei peccati e di partecipare ai frutti della Redenzione.
Tale beneficio ci viene principalmente dai sacramenti, canali
della grazia divina, che ci purifica, ci rende più
forti e fa crescere la nostra anima in santità. Inoltre,
attraverso la preghiera e il ricevimento degno dei sacramenti,
la sopportazione paziente di ogni sofferenza ci diventa
possibile.
«Perchè
Dio permette la sofferenza?» veniva chiesto un giorno
a Madre Teresa. «È difficile da capire: è
il mistero dell'amore di Dio; per questo, non possiamo neppur
capire perchè Gesù abbia sofferto tanto, perchè
sia dovuto passare per la solitudine del Getsemani e la
sofferenza della crocifissione. È il mistero del
suo grande amore. La sofferenza che vediamo ora, è
come se Cristo rivivesse in noi la sua Passione. – Come
può essere ammirabile la sofferenza? – Se viene accettata
in senso buono, come proveniente dalla mano di Dio, per
la nostra santificazione, la purificazione dell'anima ed
altresì la riparazione dei peccati del mondo, allora
essa porta la pace ed è ammirabile. – Ma Dio, non
è un Dio d'amore? – Dio non ci dà la sofferenza
per tormentarci, ma per attirarci a sè».
Un servizio insostituibile
Lungi dall'essere inutili, le persone che soffrono compiono
un servizio insostituibile. «La fede nella partecipazione
alle sofferenze di Cristo porta in sè la certezza
interiore
che l'uomo che soffre completa quel che manca alle prove
di Cristo e, nella prospettiva spirituale dell'opera della
Redenzione, è utile, come Cristo, alla salvezza dei
fratelli e delle sorelle» (Salvifici doloris, 27).
Per questo, la Chiesa si inchina con venerazione davanti
a coloro che
soffrono:
vede in essi i principali continuatori dell'opera di Cristo
Salvatore. Santa Teresa di Gesù Bambino confidava,
poco prima di morire: «Non avrei mai creduto che fosse
possibile soffrire tanto! Non posso spiegarmi questo fatto
che con il desiderio ardente che ho provato di salvare anime»
(30 settembre 1897).
La
Santissima Vergine Maria, indenne da qualsiasi macchia,
è stata associata molto intimamente all'opera della
salvezza. «In Lei, le innumerevoli ed intense sofferenze
si accumularono con tanta coesione e concatenazione che,
oltre a mostrare la sua fede incrollabile, hanno contribuito
alla Redenzione di tutti. La salita al Calvario e la presenza
ai piedi della Croce sono state una partecipazione del tutto
particolare alla morte redentrice di suo Figlio. Così,
Gesù ha conferito a Maria una nuova maternità
– spirituale ed universale – nei riguardi di tutti gli uomini»
(Salvifici doloris, 25, 26). Per questo, chiunque ricorre
a questa madre tanto compassionevole e tanto tenera per
coloro che soffrono, otterrà da lei qualche grazia
di consolazione.
Ma
è soprattutto in Cielo che raccoglieremo i frutti
della nostra pazienza nel portare la Croce. San Giovanni
ci assicura, infatti, nell'Apocalisse, che, in Cielo, Dio
asciugherà ogni lacrima dai nostri occhi, e che non
vi sarà morte, nè lutto, nè grido,
nè pena (21, 4); e San Paolo scrive ai Romani: Penso
che le sofferenze del tempo presente non possano esser paragonate
alla gloria futura che si rivelerà in noi (8, 18).
San Cipriano, parlando di tale gloria del cielo, si esprime
così: «Che gloria e che felicità, quelle
di essere ammessi a vedere Dio, di aver l'onore di partecipare
alla gioia della salvezza e della luce eterna insieme con
Cristo, il Signore nostro Dio, di godere unitamente ai giusti
ed agli amici di Dio, le gioie dell'immortalità raggiunta»
(Epistola 56, 10, 1); e Sant'Agostino: «Che felicità,
lì dove si attenderà alle lodi di Dio, che
sarà tutto in tutti! Egli sarà il fine di
tutti i nostri desideri, contemplato senza fine, amato senza
fastidio, lodato senza stanchezza. Lì, noi riposeremo,
vedremo e ameremo, ameremo e loderemo» (De civitate
Dei, 22, c. 30, n. 1, 5).
È
la grazia che chiediamo a Nostra Signora ed a San Giuseppe
di accordare a Lei ed a tutti coloro che Le sono cari, vivi
e defunti.
Dom Antoine Marie osb
Lettera
mensile dell'abbazia Saint-Joseph, F. 21150 Flavigny- Francia
(Website : www.clairval.com)
L'Abbazia San Giuseppe di
Clairval è una comunità di
monaci che vivono secondo la Regola di San Benedetto,
ubbidendo ai Pastori della Chiesa cattolica, in particolare
al Pontefice romano. Con la loro vita consacrata, i monaci
affermano la supremazia di Dio e dei beni futuri, seguendo
l'esempio di Cristo casto, povero e ubbidiente.
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