Come
pregare sempre
II
- LA PRATICA
2.
Trasformare tutto in preghiera
Abbiamo visto come non sia necessario trovarsi sempre nell'atto
di preghiera per vivere continuamente nello stato
di preghiera.
Ogni
azione fatta per Dio sale a Lui come un omaggio: costituisce
una «elevazione» del nostro essere verso la
suprema maestà divina, il riconoscimento -non sempre
esplicito, ma tuttavia reale- della sua sovranità,
il gesto filiale della creatura che offre tutto al suo Creatore
e Padre.
In
pratica, cosa dovrà richiedere da se stesso chi vuole
veramente «pregare sempre»? Dovrà dare
a ogni sua intenzione il massimo per l'uomo di perfezione
soprannaturale. In questo sarà molto avvantaggiato
se si sforzerà di fornire a ogni sua azione il
massimo per l'uomo di perfezione tecnica.
In
altre parole, dovrà purificare l'intenzione dei suoi
atti e fare in ogni circostanza «del proprio meglio».
La
purezza dell'intenzione
Non
si pensa abbastanza ad ammirare la bontà di Dio nei
confronti del meccanismo delle intenzioni umane.
Dovremmo
veramente preoccuparci, se ci soffermiamo a riflettere sulla
povertà cosi ordinaria dei nostri atti abituali e
sulla miseria dei nostri risultati effettivi. Durante la
giornata la trama delle nostre ventiquattro ore è
intessuta solamente di tanti gesti di una banalità
sostanziale: otto ore e più nel dormire, una o due
per mangiare... e le altre? Anche le opere di coloro che
esercitano un'attività «nobile» -come
artisti, poeti e scrittori- che valore hanno rispetto a
quanto è dovuto a Dio? Tenendo poi presente che il
loro tempo è in gran parte impiegato in necessita
pratiche -correzioni di bozze, rapporti con editori e impegni
simili- assai lontane dalle creazioni artistiche o dalle
geniali composizioni. Come costruire cose eterne con opere
cosi umili? Le pulizie della casa per una madre di famiglia;
la cura della cucina per una domestica; la spiegazione,
ripetuta dieci o venti volte, di un brano di Cesare o di
Virgilio per un insegnante!
«Io
ho i miei desideri!», ha osservato qualcuno. E noi
ripetiamo ben volentieri: «Fortunatamente abbiamo
le nostre intenzioni». Possiamo infondere un'«anima»
nella materia più o meno raffinata o grezza delle
nostre azioni quotidiane: e subito, come per l'aggiunta
di lievito alla pasta, tutta la materia palpita e cresce,
agitata da una fermentazione nascosta. Erano inezie e diventano
lodi eloquenti, erano versi inanimati e diventano poesia
vivente: più nulla resta vile e insignificante; ogni
cosa, rime di poeti o salse di cucina, speculazioni di alta
filosofia o travi accatastate nel deposito del carpentiere,
tutto può essere penetrato di eterno. Chi ha fatto
il miracolo? L'intenzione.
Saremmo
veramente sfortunati se Dio giudicasse secondo i nostri
atti considerati in se stessi; sarebbero privilegiati solo
coloro a cui è concesso compiere grandi imprese.
Il
tribunale divino giudicherà secondo i motivi del
nostro agire: quale consolazione pensare che una vita semplice
e nascosta, ma animata da sublimi intenzioni, sopravanzerà
senza paragone una vita degna ed elevata agli occhi del
mondo, che pero è accompagnata da intenzioni piccole
e vili! Tutto l'uomo è in ciò che vuole: nei
suoi pensieri e nel suo cuore, non nel pennello, nella scopa
o nella penna che utilizza.
Felice
paese l'aldilà, dove i veri valori saranno finalmente
ristabiliti, dove balzerà agli occhi di tutti che
certi personaggi dai gesti appariscenti non sono invece
che palloni gonfiati, mentre l'umile donna indicata un giorno
da san Francesco d'Assisi a frate Ginepro sorpasserà
in dignità soprannaturale anche tanti mediocri religiosi.
Non
basta ammirare la bellezza e l'importanza dell'intenzione;
occorre segnalare la difficoltà di riuscire a mantenerla
sempre rettamente orientata.
La
gran parte dei motivi del nostro agire sono «mescolati».
Senza neppur prendere in considerazione le persone in mala
fede, esaminiamo il caso ordinario del buon cristiano, dell'anima
fervorosa. Senza dubbio cerca Dio, ma non Dio solo: vi aggiunge
anche un po' del suo piccolo capriccio, una minuscola soddisfazione
dell'amor proprio, il desiderio di benessere o di vanità.
L'Imitazione
di Cristo raccomanda di avere lo sguardo semplice -oculus
simplex- cioè un intento esclusivamente soprannaturale,
non inquinato o guastato dalla varietà dei motivi
umani. Sant'Ignazio propone ai suoi figli il medesimo ideale:
«Ut in omnibus quaerant Deum». «Che
in tutte le cose cerchino Dio e Dio solo».
Bisogna
sempre ritornare su questa raccomandazione di tutti i maestri
di vita spirituale (1).
L'uomo
impoverisce tutto ciò che tocca: formato com'è
di polvere e di spirito, e ovunque portatore di dualità.
Nato dalla mescolanza di due diversi elementi, tende alla
mescolanza.
Questa
tendenza deve essere tenuta a freno, facendo spesso l'esame
di coscienza sui motivi delle nostre azioni e verificando
la rettitudine dell'intenzione. Vi sono persone la cui costante
preoccupazione è di apparire in buona luce agli occhi
degli altri: «Chissà cosa pensano di me, cosa
dicono... chissà cosa potrebbero pensare...?!».
Il caso è purtroppo frequente. Se sapessimo piuttosto
quanto poco, il più delle volte, gli altri badano
a noi! o meglio, quanto poco la loro opinione meriti di
essere presa in considerazione e di influenzarci! La maggior
parte delle persone si lascia guidare da pure ombre. Gettiamo
luce, una buona volta, su questi fantasmi: per chi e per
che cosa agisco? Per il sorriso di Pietro o di Paolo? Per
la presunta approvazione -spesso inesistente- della signora
tale o tal altra?... Ma via!
In
certi casi, prima di agire, converrà che mediante
uno sforzo -anche positivo ed esplicito- ci esercitiamo
a eliminare questa mescolanza di motivi, quando esiste,
per potere arrivare gradualmente a sopprimerla in ogni circostanza.
Meglio ancora se ci abitueremo a operare per quel motivo
che ci apparirà più nobile. Se devo lavorare,
potrò farlo per varie ragioni: perché é
mio dovere, perché é volontà di Dio:
é il motivo più perfetto; perché mi
assicuro una posizione e una condizione familiare onorevole:
é un motivo eccellente, ma di ordine umano e quindi
inferiore al precedente che, in sé, era del tutto
soprannaturale; oppure potrò agire perché
quel lavoro mi mette in mostra, mi da occasione di fare
bella figura: motivo, quest'ultimo, gia molto meno nobile.
Non
crediamo, tuttavia, di aver tutto perduto se durante l'azione
è intervenuta un'intenzione meno pura di quella che
ci aveva mossi.
È
certo che se l'intenzione è chiaramente cattiva e
opposta alla prima, in modo tale da annullarla completamente
- attenti alle due condizioni!- il risultato è un'azione
malvagia la cui gravità è da valutarsi secondo
le norme ordinarie di morale riguardanti il peccato.
Nella
maggior parte dei casi, pero, la prima intenzione buona
mantiene il suo valore: io faccio l'elemosina per pietà,
per carità; il motivo secondario che si insinua -il
desiderio di essere notato, per esempio- non distrugge del
tutto la precedente intenzione, semplicemente la altera
un poco, aggiungendo un elemento umano a un'attività
che inizialmente era solo soprannaturale. L'atto rimane
buono, ma il suo merito è un po' diminuito dall'intrusione
del motivo meno nobile; in queste occasioni conviene ripetere
le parole che san Bernardo raccomandava ai suoi monaci:
«Non propter te coepi, nec propter te desinam».
«Non è per te che ho cominciato, e non
sarà per te che finirò».
La
perfezione dei nostri atti
Un'intenzione
pura sarà normalmente accompagnata da opere perfette.
Si agisce bene quando si è animati da nobili sentimenti.
Se
credessimo alle lamentele che si levano ovunque, le opere
ben fatte sarebbero sempre più rare: la serietà
professionale viene meno, si lavora sempre peggio e in modo
abborracciato. Non vi è più, come un tempo,
la preoccupazione di fare «il meglio possibile»
(2).
Non
è forse vero che l'abitudine di prendere le cose
alla leggera è penetrata un po', dal mondo paganizzante
che ci circonda, anche nella vita del cristiano?
Con
quale serietà ciascuno di noi opera secondo il proprio
stato? Come adempiamo ai nostri lavori quotidiani? Ci impegnamo
veramente al meglio delle nostre possibilità? Se
non è così, che cosa aspettiamo? Dal momento
che abbiamo un Padrone tanto buono che ricompensa ogni più
piccola azione, anche quando è imperfetta, ci accontenteremo
di offrirgli delle azioni fatte a meta, un mezzo lavoro,
un'attività di scarso rendimento?
Spesso
desidereremmo una vita diversa da quella che il buon Dio
provvidenzialmente ci ha assegnato. La vorremmo piena di
altri avvenimenti, di altre attività, di doveri di
stato meno monotoni e più brillanti. Non è
un segreto: nemo sua sorte contentus, nessuno
è contento della propria sorte. Si preferirebbe cambiare
con il vicino. Ebbene, Dio non ci chiede di fare altre
cose, ci chiede di fare in altro modo;
non di cambiare i nostri atti, ma solamente il modo
di compierli. Lavare i panni o correggere bozze di stampa,
quando appartengono ai doveri di stato, sono tesori che
accumuliamo per il cielo; ma molto dipende da come li compiamo.
Esistono diverse forme di «sabotaggio». Un buon
esame di coscienza ci rivelerà che spesso coltiviamo
la brutta abitudine dello sciopero bianco e del sabotaggio
a porte chiuse.
I
santi non si comportavano certo così, ma facevano
bene quello che dovevano fare; è la nozione più
elementare e nello stesso tempo più profonda di santità.
Alcuni di essi hanno potuto compiere grandi imprese, ma
non sono state queste che li hanno resi santi; anzi, hanno
meritato di poterle compiere proprio perché sono
rimasti abitualmente fedeli nelle piccole cose.
San
Giovanni Berchmans è salito all'onore degli altari
perché, in una pur breve vita, ha raggiunto la completa
perfezione nelle azioni ordinarie. Un tale a cui fu chiesto
cosa pensasse delle virtù di padre Chevrier, fondatore
del Prado, rispose: «Non so nulla; o meglio, so
una cosa sola: tiene sempre chiuse le porte di casa sua».
Semplice battuta, ma che la dice lunga, poiché
rivela un perfetto autocontrollo e un'assoluta fedeltà
alle piccole cose.
Chi
non può essere santo in questo modo? Vivere, nella
grigia monotonia quotidiana, una vita radiosamente santa
perché trascorsa in continua preghiera.
Abbiamo
spiegato altrove che il segreto della vita fervorosa consiste
nell'avere per ideale: Agire in ogni circostanza come
agirebbe nostro Signore, se si trovasse al nostro posto
(3). Abbiamo anche sottolineato che ciò non costituisce
una fantasia o un'ipotesi più o meno fittizia; è
una realtà. Ognuno di noi, quando è in grazia
di Dio, è parte vivente di Cristo; per conseguenza
è Cristo stesso nella sua accezione totale che, in
noi e per noi, compie ogni nostro atto soprannaturale.
Come
eseguirebbe Gesù questo umile dettaglio della mia
esistenza? Cosi anch'io devo eseguirlo. E quell'altro?...
E quell'altra cosa ancora?...
Un'anima
che adottasse questa regola di condotta pratica, non avrebbe
più bisogno di cercare altrove una formula di santità:
l'avrebbe gia trovata. Nessun'altra può dirsi più
rapida ed efficace.
1
«Passate con nostro Signore tutto il tempo che
potete sottrarre alle occupazioni; poi abituatevi a purificare
le vostre opere e i ricordi delle persone e degli avvenimenti
che si sono succeduti nel corso della giornata. Se abbiamo
concluso felicemente un affare o ricevuto una
visita, lasciamo il merito della buona riuscita a nostro
Signore e guardiamoci dal compiacimento nel ricordare queste
cose; non soffermiamoci su ciò che
può eventualmente darci gusto, sul successo
che abbiamo avuto, sulle lodi [...] L'amor proprio e cosi
sottile! Abbandoniamo subito il pensiero di queste cose
e ritorniamo alla presenza di Dio, come un pesce che e stato
tratto fuori dall'acqua e che, appena la rivede, rapidamente
vi si ritu ff a» (p. A. BROU, op.
cit ., pp. 184-185).
2
«Abbiamo conosciuto questo zelo spinto fino
alla perfezione, uguale nell'insieme di un'opera come
nei suoi dettagli. Abbiamo conosciuto questo desiderio del
lavoro ben fatto, spinto e mantenuto fino all'estremo.
Nella mia infanzia ho visto rimpagliare sedie in
modo perfetto, con lo stesso spirito, lo stesso cuore
e la stessa arte con cui lo stesso popolo aveva costruito
le sue cattedrali. Anche ai nostri giorni, in fondo, il
popolo non e per nulla soddisfatto di starsene nei cantieri
con le mani in mano; preferirebbe lavorare, ha nel sangue
questo desiderio: la mano non può stare inerte,
ha voglia di lavorare. Ma sono venuti dei signori per bene,
dei dotti, dei borghesi ed hanno spiegato a questi uomini
operosi il socialismo e la rivoluzione» (CHARLES
PEGUY, L'Argent, in Oeuvres complètes
, N.R.F., Parigi 1927, tomo III, pp. 388-393 passim).
3
Cfr. dello stesso autore, In Cristo Gesù ,
op. cit., e Gesù Cristo nei
nostri fratelli, trad. it., VII ed. riveduta,
Marietti, Torino 1950.