Come
pregare sempre
I
- I PRINCIPI
2.
Pensare sempre a Dio non è necessario
Stato
di preghiera e dovere di stato
In
un eccellente opuscolo intitolato Regole per rassicurare
nei loro dubbi le anime devote, il barnabita Quadrupani
osserva: «Agire per Dio è meglio che pensare
a Dio».
Bene intesa, questa proposizione è straordinariamente
opportuna. Non si tratta ora di decidere se sia più
perfetta la vita contemplativa o la vita attiva; la questione
è da tempo risolta, e del resto esula completamente
dal nostro studio.
Ecco, invece, il punto: in una vita qualsiasi - poco importa
se contemplativa o no, se nel chiostro o nel mondo - oltre
al tempo che dobbiamo consacrare agli esercizi di pietà,
che cosa chiede Dio? Di pensare a Lui o piuttosto - e innanzi
tutto - di agire per Lui? Dio esige la nostra mente o il
nostro cuore? La nostra memoria o la nostra volontà?
Senza alcun dubbio la nostra volontà. Per prima cosa
- a parte il tempo della preghiera in cui il nostro «agire
per Dio» consiste nel «pensare a Lui»
- Dio ci chiede in ogni occasione di agire per Lui, evitando
anche, se necessario, di pensare a Lui qualora ciò
recasse detrimento all'«agire per Lui».
E il caso non è affatto ipotetico.
Un esempio per chiarire il concetto.
Una madre di famiglia è carica di doveri di casa,
con figli numerosi e ancora piccoli, e scarso aiuto da altri;
è necessario quindi che provveda di persona al buon
andamento della casa. Male istruita circa i suoi doveri,
ecco che al mattino si reca a messa e s'intrattiene in lunghe
e ferventi preghiere, quando il buon senso esigerebbe che
restasse in casa per sbrigare le faccende domestiche.
Si trova proprio in linea con quanto Dio le chiede, con
ciò che esige una prudente spiritualità?
Oppure, supponiamo che le sia possibile partecipare alla
messa mattutina. Ritornata a casa, rimane tanto assorta
nelle pratiche di pietà che non riesce a combinare
nulla. I momenti di preghiera si moltiplicano, le orazioni
o gli slanci si susseguono; ma si accumulano anche gli abiti
da aggiustare, le dimenticanze e le negligenze di ogni tipo.
Chi non le consiglierebbe meno esercizi di pietà
e più fedeltà ai doveri di stato?
È
chiaro che, nel caso in cui il dovere di stato esige da
noi la preghiera, tutto lo sforzo deve essere rivolto a
pensare a Dio nel miglior modo possibile.
A parte ciò, cosa richiede il dovere? Che l'azione
presente sia fatta per Dio nel miglior modo possibile; che
nell'agire io non ricerchi in nulla me stesso; che Dio solo
sia l'oggetto ultimo a cui tendo(1).
Quest'ultima frase esprime, riassumendola, l'esatta teoria
del «pregare sempre».
Pregare sempre non vuole assolutamente dire far seguire
agli esercizi di pietà nuovi esercizi di pietà,
a un rosario la recita di un piccolo ufficio, poi una lettura,
un'orazione mentale e così di seguito; ma significa
vivere in uno stato in cui tutto sia «elevazione dell'anima
a Dio». Nessuno può, senza il rischio di impazzire
rapidamente, trasformare la propria vita in una trama ininterrotta
di esercizi di pietà! Tutti, invece, se
non vogliono mettere troppo di umano nella loro esistenza,
devono vivere facendo risalire ogni attività a Dio
con la massima purezza d'intenzione.
Gli atti continui di preghiera sono impossibili; ma lo stato
continuo di preghiera è sommamente desiderabile.
Ebbene, lo stato di preghiera consiste nella completa purezza
d'intenzione nel corso dei doveri di stato. Non posso mantenere
il pensiero incessantemente occupato da Dio, ma non devo
mai avere la volontà orientata verso qualcosa di
diverso da Dio, almeno come fine ultimo.
L'unione con Dio, in una forma contemporaneamente perfetta
e molto facile da raggiungere, consisterà dunque
nel riferire a Lui, dall'intimo della volontà, se
non sempre esplicitamente, tuttavia effettivamente, tutto
quello che noi facciamo.
La questione si riduce dunque a questo: come riferire a
Dio, dall'intimo della volontà, tutte le nostre azioni?
È il problema della purezza dell'intenzione.
Vi
sono diversi modi per indirizzare a Dio la propria inten
zione:
-
o pensando a Lui nel momento stesso in cui si agisce: intenzione
attuale;
-
oppure, senza pensarci in quell'attimo, agendo sotto l'influenza
di un'intenzione precedentemente assunta e che dura ancora
nel suo influsso: intenzione virtuale;
-
alcuni propendono per l'opinione secondo cui l'intenzione
abituale è sufficiente perché la nostra attività
sia soprannaturalmente meritoria. Per il solo fatto che
l'orientamento generale della vita non viene a essere capovolto
da un atto positivo in senso contrario, la vita mantiene
il suo corso, la sua tendenza verso Dio, il suo valore eterno.
Secondo quest'ultima ipotesi, ogni atto umano non cattivo
s'incammina da sé verso Dio; è dunque un atto
ascendente, un'elevazione verso Dio, un atto meritorio,
che è nello stesso tempo una preghiera
Se si pretende l'intenzione virtuale, la questione rimane
immutata, poiché in un'anima fervente tutta l'attività
è regolata da motivi nettamente soprannaturali, e
l'intenzione virtuale esiste quasi sempre.
Dunque, in una vita cristiana generosa, se si distinguono,
da una parte gli atti di preghiera propriamente detti e
le pie pratiche, e dall'altra le rimanenti manifestazioni
coscienti dell'attività, ognuno di questi generi
di azioni porta verso Dio: ciò che è formalmente
preghiera, è chiaro; e ciò che formalmente
non lo è, tuttavia, a buon diritto, si può
considerare tale perché in accordo con la definizione
di preghiera come «elevazione dell'anima a Dio».
Bossuet descrive così questa seconda forma di orazione:
«È il desiderio di lodare Dio in tutte
le creature e per mezzo di tutte le creature, utilizzandole
bene e santificandole con quest'uso, affinché Dio
sia glorificato. Buon uso della luce e delle tenebre; buon
uso del bel tempo e della pioggia; buon uso del fuoco e
del ghiaccio; buon uso di tutto ciò che esiste, e
a maggior ragione di sé stessi, dei propri occhi,
della lingua, della bocca, delle mani e dei piedi; del proprio
cuore e, a maggior ragione ancora, della propria anima e
della propria intelligenza...» (2).
Altrove aggiunge: «Bisogna pregare durante il giorno,
pregare durante la notte e tutte le volte che ci svegliamo;
e questa continua preghiera non consiste affatto in una
perpetua tensione dello spirito; ma piuttosto [...], una
volta recitate le abituali orazioni [...], nel mantenersi
il più possibile in uno stato di dipendenza da Dio,
mostrandogli le nostre necessità, cioè ponendogliele
davanti agli occhi, senza dir nulla. Allora, come la terra
secca e inaridita sembra invocare la pioggia col solo mostrare
al cielo la sua aridità, così l'anima, nello
svelare a Dio i suoi bisogni sembra dire: "Signore,
non occorre supplicarti: ti pregano la mia indigenza e la
mia necessità" [...]. In tal modo si prega senza
pregare, e Dio comprende questo linguaggio» (3).
Applicava mirabilmente questa dottrina l'anima amante
che scrisse: «Ho sempre pensato che la notte la mia
miglior preghiera fosse il sonno [...]. Soltanto che non
dormo di un sonno completo: il mio cuore veglia presso il
tabernacolo e prego il mio buon Angelo di offrirne ogni
battito a nostro Signore come un atto d'amore»
(4).
Sant'Agostino afferma la stessa cosa, spiegando ai fedeli
di Ippona il versetto del salmo: La mia lingua celebrerà
la tua giustizia, canterà la tua lode per sempre.
«Se cantate un inno, voi lodate Dio (ammesso
che il cuore segua le parole); quando, cessati i canti,
è il momento della cena, guardatevi dagli eccessi
e avrete lodato Dio. Vi ritirate per riposare? Non alzatevi
per far del male e avrete sempre lodato Dio. Siete commercianti?
Non frodate il prossimo e avrete lodato Dio. Siete contadini?
Evitate le liti e avrete ancora lodato Dio. Ecco come, per
l'innocenza delle vostre opere, sarete sempre in grado di
lodare il Signore» (5).
Riassumendo:
è preghiera tutto ciò che sale verso l'Altissimo
per adorarlo, ringraziarlo, domandargli perdono e implorare
le sue grazie; tutto ciò che sale a Lui, sia tramite
la preghiera esplicita e formale - gli atti di preghiera
- , sia per mezzo della preghiera implicita e virtuale -
il resto delle nostre attività soprannaturalizzate,
cioè il dovere di stato soprannaturalmente compreso
e vissuto - (6).
In altri termini: possiamo pregare o con il pensiero o con
la volontà. Con il pensiero, e abbiamo gli esercizi
di pietà; con la volontà, cioè con
la nostra intera attività che sale verso Dio, e abbiamo
i nostri obblighi ordinari eseguiti in modo soprannaturale
(7).
Questo è lo stato di preghiera: il culto del nostro
dovere di stato.
Gesù
modello dello stato di preghiera
La
teoria è chiara; le conseguenze non sono meno evidenti.
Credere che durante le proprie attività, qualora
siano pienamente soprannaturali, non viviamo uniti a Dio
perché non pensiamo a Lui, è un errore grossolano.
Diremo nel capitolo seguente come sia possibile, e augurabile,
unire al proprio «agire per Dio» il «pensare
a Dio». Ma bisogna, anzi tutto, ben comprendere che
il «pensare a Dio» attuale non è per
sé richiesto per agire soprannaturalmente.
Altrimenti bisognerebbe ammettere che solo gli atti ai quali
si unisce esplicitamente un gesto formale di preghiera,
permettono di «innalzarci a Dio»; il che ridurrebbe
la nostra attività soprannaturale e orante ai soli
«atti» di pietà. È fin troppo
evidente che non possiamo rimanere tutto il giorno in un
angolo, con le mani giunte, a pensare al Signore; del resto
ciò non è neppure richiesto.
Più opportunamente, qualche volta, come abbiamo messo
in chiaro, gli atti formali di preghiera dovranno cedere
il passo a un obbligo più urgente. Senz'altro e innanzi
tutto, ai doveri di stato.
La vera unione con Dio risulta dall'unione della nostra
volontà con quella di Dio. Se la volontà di
Dio o il suo desiderio, prudentemente valutato con una saggia
riflessione e secondo un programma approvato, richiede che
ora io preghi, il mio dovere è pregare. Se invece
richiede che io abbandoni la preghiera per attendere ad
altri compiti molto impegnativi, che non lasciano nel frattempo
alcun riposo alla mente per salvaguardare l'unione del pensiero
con Dio, la mia unione con Lui è tuttavia perfetta.
La santità si trova esattamente nell'unione della
nostra volontà con il divino volere (8).
Così diceva di sé stesso nostro Signore: Il
mio nutrimento (cioè la sostanza, l'essenza
della mia vita, la mia ragion d'essere e d'agire) è
fare la volontà del Padre. E Maria, la creatura più
simile a Cristo, più «cristiana» nel
senso profondo del termine, non dirà altrimenti:
Ecce ancilla Domini.
Noi non abbiamo altro da fare: agire in tutto seguendo la
volontà divina. Non ci è domandato di imitare,
della vita di Cristo, la nascita in una mangiatoia o la
crocifissione, ma di riprodurre totalmente la disposizione
fondamentale della sua intera esistenza, cioè l'assoluta
e radicale sottomissione a tutti i voleri e desideri del
Padre.
Il Cristo è essenzialmente questo: una persona uguale
al Padre che si sottomette per potere, con la sua obbedienza,
riparare la disubbidienza originale. Come Verbo era uguale
al Padre, come incarnato sarà inferiore.
Factus oboediens, oboediens usque ad mortem. Obbediente,
obbediente fino alla morte: così si definisce tutta
la sua vita. Per trent'anni ha obbedito, erat subditus:
era sottomesso. Per il resto della vita, obbedì ancora.
Christus non sibi placuit: il Cristo non ha mai
seguito il proprio gusto; sarebbe stato far tornare a suo
profitto qualche cosa di una attività che aveva il
Padre per unico centro: «Nesciebatis quia in his
quae Patris mei sunt, oportet me esse?». «Non
sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?»
(Lc 3, 49). Si dedica, infatti, alle «cose del Padre»
fino alla tragedia dell'agonia e del Calvario.
Non mea voluntas sed tua fiat. Non la mia volontà,
ma la tua! Fino al momento in cui, risalendo al Padre, Gesù
può smettere di obbedire: Consummatum est.
Ho fatto tutto quello che dovevo fare.
Occorre sempre ritornare su questo concetto fondamentale.
Per realizzare l'ideale cristiano, ciascuno di noi deve
plasmare la propria vita su quella di nostro Signore; non
agire mai prendendo i capricci personali per fine ultimo,
ma avere sempre e unicamente di mira, in modo più
o meno formale, ma effettivo, le «cose del Padre»,
la volontà di Dio (9).
Se tale è «il Cristo», ogni cristiano
- per meritare realmente il titolo di «alter Christus»
- dovrà trasformarsi in una copia di quel «supremo
Obbediente» che fu il Maestro, talmente sottomesso
alla volontà e ai desideri del Padre da vedere in
ogni cosa soltanto ciò che il Padre domanda. «Di
me è scritto - dice un salmo messianico - che io
faccia il tuo volere. Mio Dio, questo io desidero»
(Sal 39, 8-9). Ogni cristiano dovrebbe attuare per proprio
conto tale ideale di vita di Gesù Salvatore (10).
Ma simile ideale, per verificarsi, suppone la morte dell'istintivo
affanno naturale e dei propri gusti disordinati. Suppone
l'«io» relegato all'ultimo posto, in modo tale
che non abbia da dire sul governo della nostra vita o che
parli solo dopo Dio e sempre sotto la sua luce; l'«io»
ridotto a una ragionevole dipendenza, a quell'obbedienza
interiore che è l'imitazione perfetta del Salvatore:
«Non quaero voluntatem meam, sed voluntatem eius
qui misit me. Quae placita sunt ei, facio semper».
«Non cerco la mia volontà, ma la volontà
di colui che mi ha mandato. Io faccio sempre le cose che
gli sono gradite» (Gv 5, 30; 8, 29). È
il consiglio che dava san Paolo a chi voleva veramente imitare
Gesù crocifisso. Crocifiggersi con Gesù Cristo
non consiste nel piantarsi dei chiodi nelle mani e nei piedi,
ma nel piegarsi a questa rinuncia assoluta, che vale tutti
i patiboli (11).
Agire a nostro capriccio, prendendo noi stessi come fine
ultimo, non significa certo compiere un'azione «ascendente»,
ma un'azione «discendente»; significa ripiegare
su sé stessi e sulla propria nullità qualche
cosa del proprio agire, considerarsi come centro, uscire
dalla perfetta imitazione di Gesù Cristo e cessare
di essere uniti alla volontà di Dio; significa, insomma,
tralasciare di pregare.
Questa
dottrina non è altro che la messa in pratica del
fondamento che sant'Ignazio pone all'inizio del suo libretto
degli Esercizi; la stessa cosa ripetono tutti i catechismi
quando precisano i nostri doveri verso Dio: «L'uomo
è creato per Dio Dunque la sua vita, il suo essere,
la sua attività devono avere solo Dio come fine ultimo».
In tutto ciò che faccio, devo immettere il meno possibile
di me stesso; non di me stesso come causa attiva - anzi,
non si esegue mai abbastanza bene quello che si fa - ma
di me stesso come fine ultimo del mio agire. E questa elevazione
di tutta la mia attività verso Dio, senza mescolarvi
il mio «io», cos'è se non la «preghiera»
perfetta e l'omaggio perfetto reso, mediante la mia vita,
a Colui che ha diritto all'omaggio assoluto di tutto ciò
che esiste? Come si vede, fin dalle prime riflessioni del
suo libretto, sant'Ignazio prepara l'esercitante all'unione
con Dio, concepita nel modo più profondo.
Altra
osservazione: la preghiera perfetta della Chiesa è
l'offerta del pane consacrato. Ora, nell'Ostia, non c'è
più nulla di pane; tutto è «Gesù
Cristo». Similmente, la mia vita sarà
perfetta orazione se in me non vi sarà più
mescolanza, più nulla del mio «io»,
se tutto sarà «Gesù Cristo»,
cioè sottomissione piena ai voleri del Padre (12).
1
Il p. ENRICO MARIA BOUDON, arcidiacono di Evreux, felicemente
scrive: «Desidererei che tutti i cristiani si
mantenessero alla presenza di Dio, nella maniera suggerita
dal p. de Condren. Secondo lui, compiere le proprie azioni
in modo tale che, ripensandoci, non si ripeterebbero né
in altro modo né per altri motivi, equivale a mantenersi
costantemente alla presenza di Dio».
2
BOSSUET, Lettera V a suor Cornuau, Edizioni Vivès,
XXVII, p. 447.
3
BOSSUET, Meditations sur l'Evangile, 40o e 41o giorno, Edizioni
Vivès, VI, pp. 61-62.
4
SANT'AGNESE DELLA CROCE, delle Guardie Adoratrici dell'Eucaristia,
dette di saint'Aignan, Vita, Lethellieux , p. 84
5
SANT'AGOSTINO, Enarr. in Ps. 34, sermo II, PL 36, 34. San
Bonaventura più brevemente dice: «Non cessat
orare qui non cessat benefacere». «Non smette
di pregare chi non smette di agire bene». E L.
de Blois: «Qui semper bene agit, semper orat.
Sancta vita oratio assidua». «Bene
agire è pregare sempre. Vita santa è continua
preghiera».
6
È ciò che nostro Signore voleva fare intendere
a santa Geltrude con queste parole: «Pensi forse
che lo sposo abbia meno piacere quando s'intrattiene familiarmente
e teneramente con la sposa nella camera nuziale, che quando
è fiero di vederla apparire in pubblico nello splendore
dei suoi ornamenti?» (SANTA GELTRUDE, Le Héraut
de l'amour divin, Ed. Oudin, 1876, I, p. 209).
7
Gli iscritti all'Apostolato della Preghiera sanno che la
pratica dell'offerta quotidiana non ha altro scopo che metterli
nello stato di preghiera.
8
È frequente illusione considerare la contemplazione
a tal punto superiore all'azione, da dimenticare che - al
di sopra di entrambe - c'è la volontà di Dio
e che l'una e l'altra sono semplici mezzi da non confondersi
col fine, che è la santità... Marta non si
lamenti del lavoro intrapreso per Dio! San Francesco di
Sales le dirà che c'è un'estasi delle opere,
la quale - come l'estasi dell'orazione, seppure in altro
modo - ci trae fuori di noi stessi immettendoci in Dio!
Santa Maddalena Sofia Barat così scriveva a una superiora:
«Quanto alla vostra difficoltà di raccogliervi
e di unirvi a nostro Signore nel mezzo delle occupazioni
dissipanti che vi oberano, non inquietatevi: è per
Dio che le sopportate, e quante occasioni di rinunce vi
si offrono! Certamente questa vita di sacrificio, di lavoro,
di sopportazione del prossimo, è la migliore preghiera
che possiate fare, purché eleviate frequentemente
il cuore verso il nostro buon Maestro e operiate soltanto
per Lui» (p. ALESSANDRO BROU S.I., Travail et
Prière: Sainte Mad. Sophie Barat, Beauchesne, Parigi
1925, pp. 282 e 181-182).
9
Secondo Maria d'Agreda, nostro Signore ha esercitato una
sola volta la facoltà di scegliere: quando ha scelto
la sofferenza (cit. da p. FREDERICK WILLIAM FABER, Betlemme,
Marietti, Torino 1924).
10
Consummata non aveva altro obiettivo di santità.
Ella è salita così in alto «fino alle
sommità della unione divina» perché
si è costantemente sottomessa a questa regola cristiana,
la vera regola della vera santità (cfr. p. R. PLUS,
Consummata, vol. I: Vita di Maria Antonietta de Genser;
vol. II: Lettere e scritti spirituali di Maria Antonietta
de Genser, Marietti, Torino-Roma 1930).
11
«Expoliantes vos veterem hominem cum actibus suis».
«Vi siete spogliati dell'uomo vecchio con le sue
azioni» (Col 3, 9).
12
Cfr. dello stesso autore, In Cristo Gesù, trad. it.,
5ª ed., Marietti, Torino-Roma 1940, in particolare
i capitoli sull'Eucaristia (pp. 217-263).