Come
pregare sempre
II
- LA PRATICA
1.
Fare bene la propria preghiera
È
da sfatare il mito che sia difficile fare orazione.
Non
vi è nulla di più semplice, ma bisogna sapere
come fare.
Non
si vogliono negare le difficoltà dell'orazione: difficoltà
per le anime di vita spirituale ordinaria e per le anime
che hanno raggiunto gradi di orazione più elevati.
A
queste ultime non è indirizzato il nostro modesto
lavoro; preferiamo rimandarle alla lettura delle drammatiche
pagine di san Giovanni della Croce, dove i laboriosi distacchi
delle successive purificazioni sono descritti con l'autorità
di un santo, e di un santo che ha vissuto ciascuna di quelle
tappe dove il Calvario è accanto al Tabor.
Restano
le difficoltà per le anime di vita spirituale ordinaria.
Nella maggior parte dei casi provengono: dal non seguire
un metodo per prendere contatto con le realtà
del mondo invisibile; dalla mancanza di coraggio per
agire con energia nella preghiera; dalla mancanza di perseveranza
per restare al cospetto di Dio nelle aridità
e nelle desolazioni.
Tutta
l'arte della preghiera consiste nella debita applicazione
di tre formule:
- sapere
preparare la propria orazione;
-
sapere essere attivi nell'orazione;
-
sapere perseverare nell'orazione.
Preparare
la propria orazione
Nelle
pagine precedenti abbiamo accuratamente distinto due casi:
il raccoglimento che risulta da una particolare elargizione
divina, e il raccoglimento che risulta dallo sforzo dell'uomo
con l'aiuto ordinario di Dio.
È
chiaro che, nel primo caso, siccome per definizione è
Dio che fa tutto, la parte di intervento umano sarà
ridotta al minimo.
Il
buon senso richiederà semplicemente di tenere pronto
un soggetto d'orazione qualora Dio cessasse di «intrattenersi»
direttamente con l'anima. Volere interrompere con proprie
riflessioni o disquisizioni le comunicazioni dello Spirito
Santo, non può che intralciare e, in ogni caso, non
sarebbe molto utile. Quando esiste gia il contatto con Dio,
perché sforzarsi di provocarlo? Quando splende il
sole, perché accendere la luce elettrica?
La
regola è: restate tranquilli e ascoltate: e ciò
non significa rimanere inattivi.
Ben
diverso si presenta il secondo caso, quando il raccoglimento
è frutto del nostro impegno. Dio è vicino,
ma nascosto, come d'abitudine. Per manifestarsi attende
che siamo noi stessi a squarciare i veli che lo nascondono.
Inginocchiarsi
e aspettare, e basta, sarà spesso un'inutile attesa.
Aiutati che il cielo ti aiuta! Ma in che modo?
Così.
Se
la mente, per ipotesi, è vuota o distratta, dovremo
introdurre nel suo «campo visivo» un tema evocatore
di realtà invisibili. E ciò sarà:
o
un'idea
o
un fatto
o
un testo.
Un'idea:
la morte, per esempio. Ho una memoria, un intelletto, una
volontà: esercito le tre facoltà intorno a
questa idea. Memoria (e immaginazione): cerco di
ricordarmi tutto quello che so sulla morte, le sue circostanze,
la rapidità, l'arrivo imprevisto. Mi rappresento
la scena nel suo insieme e in ogni particolare. Intelletto:
si muore... dunque anch'io certamente morrò... Sono
mortale, oppure no? Sì, lo sono; dovrò morire...
Io, che mi sento ora così pieno di vita... ecc. Volontà:
poiché devo morire, mi conviene vivere come chi
sa di dovere morire, di doversi distaccare da tutto. Attualmente,
ne sono distaccato? ... ecc.
Abbiamo
fatto questo esempio, ma ve ne sono mille altri; per tutti
si procederà in eguale maniera. Però -sia
ben chiaro- non in virtù di un certo procedimento
fittizio, artificiale. Il procedimento, se c'è, è
quello impiegato da ogni uomo ragionevole quando riflette:
cerca di ricordarsi, collega fra loro, per induzione o deduzione,
i dati forniti dalla memoria e decide, in conseguenza di
ciò che la ragione comanda (1).
Gridare
alla meccanizzazione è dimenticare che parlare è
semplice, ma spiegare come pronunciare vocali e consonanti
non lo è altrettanto.
La
teoria dell'uso delle armi sembrerebbe complicata, la pratica
invece, è molto semplice (2).
Questo
sistema di fare orazione è detto meditazione;
meditazione nel senso stretto del termine, perché
la stessa espressione può essere impiegata in senso
più lato per indicare tutti i modi di intrattenersi
con Dio, come sinonimo di orazione. Fare meditazione non
significherà, in questi casi, applicarsi esclusivamente
all'«esercizio delle tre potenze», ma dedicarsi
all'orazione mentale sotto qualsiasi forma.
Una
di queste forme si chiamerà contemplazione,
anche qui intesa nel senso stretto del termine, perché
molti chiamano «contemplazione» l'orazione delle
anime mistiche.
La
contemplazione, secondo sant'Ignazio, consiste nell'applicazione
della mente alla preghiera non più servendosi di
un'idea, ma di un fatto.
Consideriamo,
per esempio, l'Annunciazione o un qualsiasi altro episodio
della vita di nostro Signore o della Madonna. Sarà
bene, per procedere con ordine e non sovraccaricare la mente,
suddividere il mistero: principio, parte centrale, fine;
oppure: prima, durante, dopo. E in ciascun punto considerare,
come in un quadro, persone, parole, azioni.
Annunciazione:
principio (cioè, prima dell'apparizione dell'Angelo).
«Persone»:
una sola, Maria Santissima. Osservo... Prima di tutto il
suo aspetto esteriore, poi l'insieme... che raccoglimento!
Poi comincio a considerare i particolari: il suo volto,
gli occhi, le mani... Non è difficile! Meglio ancora
se penetriamo nell'intimo dell'animo, dei pensieri, del
cuore di Maria. Chi non è capace, con questo facile
metodo, di penetrare nel profondo del mistero?
«Parole»:
nessuna... ascolto il silenzio e mi ci immergo. Non in
commotione Dominus. Dio non si comunica nel rumore.
Non l'ho costatato tante volte io stesso?!
«Azioni»:
nessuna...
Così
continuo, secondo il bisogno della mia anima.
Secondo
punto: la venuta dell'arcangelo Gabriele. Qui ci saranno
le «parole». Le prendo e le soppeso, una per
una... è difficile? Provate e vedrete; ma provate
lealmente, senza fermarvi alla prima difficoltà.
Vi garantisco che se vi preparerete così e avrete
il coraggio di perseverare, l'orazione non vi sembrerà
più difficile. Le difficoltà, che non mancano,
non vengono da questa parte: contemplare non vuole dire
altro che osservare. Sapete osservare? Aprite bene gli occhi:
il mondo oscuro della fede è più luminoso
di quanto pensate. Basta volere vedere.
Per
giungere a Dio nell'orazione ci si può aiutare o
con un fatto o con un'idea o con un testo;
per esempio un salmo, una preghiera ordinaria di cui
si voglia ravvivare il senso originario, un versetto dell'Imitazione
di Cristo o, per chi volesse addentrarsi nel mistero
di «Dio in noi», una formula estratta da Vivere
con Dio (3).
È
un metodo eccellente per i principianti e per chi è
stanco; è un metodo valido per tutti, ma a patto
di interrompere la lettura appena salgono dal cuore spunti
di riflessione e affetti personali.
Molte
persone che meditano, iniziano a pregare senza essersi preparate.
Abbiamo gia spiegato che è un errore psicologico.
Ora
aggiungiamo che è anche una indelicatezza (4). Sto per avere un colloquio con Dio. Con Dio, conviene
sottolinearlo; con il Signore dell'universo. Supponete l'arrivo
di un illustre personaggio in una città. Credete
forse che l'incaricato a riceverlo dica: «è
inutile fare preparativi, riuscirò ugualmente a cavarmela!»?
Applicatelo, e a maggiore ragione al nostro caso.
Essere
attivi nell'orazione
Se
ci siamo preparati e abbiamo ben preparato il soggetto da
meditare, non dobbiamo però credere che basti inginocchiarsi
per avere in mano la chiave che apre lo scrigno dei tesori
del cielo. Le perle non si danno per un soldo. Occorre ingegnarsi,
applicarsi; in una parola: essere attivi.
L'orazione
è giustamente definita un «esercizio
di pietà»; sant'Ignazio, esperto in materia,
ha intitolato Esercizi Spirituali il suo libro di
perfezionamento cristiano.
In
realtà pochissimi si esercitano veramente,
cioè si sforzano di svolgere un lavoro personale
durante l'orazione. Per molti «fare meditazione»
consiste nel percorrere più o meno passivamente le
considerazioni più o meno eccitanti o soporifere
di un autore.
Esistono
anche libri di meditazione ben fatti; ma non molti (5). Spesso lo svolgimento è troppo lungo e complicato, troppo
letterario e contorto; talvolta è arduo e astratto,
con eccessive considerazioni teologiche e in uno stile arcaico
e fastidioso. Di qui la riflessione di alcuni: «Se
la mia meditazione deve consistere in simili dissertazioni,
preferisco rinunziarvi subito. Non ci riuscirò mai».
Ammettiamo
pure che chi ragiona così sia un po' troppo severo;
bisogna però riconoscere che certi manuali di meditazione
hanno contribuito a diffondere una falsa idea dell'orazione,
facendola apparire fastidiosa, astrusa o impraticabile;
troppo lontana, insomma, dalla definizione di santa Teresa
d'Avila: «Una cordiale conversazione con Dio»,
o dalla risposta di quel bravo uomo al santo Curato
d'Ars: «Io guardo Dio e Dio guarda me»
(6).
Ecco
il nostro consiglio: utilizzare un libro solo quando non
potete fare altrimenti.
La
ragione per cui si trova raramente un manuale di meditazione
ben fatto non è tanto perché sia scritto male,
ma piuttosto perché è scritto da un altro.
Non c'è niente di più personale della
preghiera. I sentimenti che l'autore suggerisce, spesso
non dicono nulla. È normale; infatti sono i suoi
e non corrispondono necessariamente ai nostri.
È
proprio necessario richiamarsi, nella meditazione, allo
svolgimento, ai pensieri e ai sentimenti di un altro? L'autore
offrirà forse buoni spunti, ma non ci siete anche
voi nella vostra meditazione? Perché non cercate
di ottenere da voi ciò che egli ha ottenuto da sè?
I suoi pensieri avranno sicuramente fatto del bene a lui,
ma ora potrebbero non essere in sintonia con le attuali
disposizioni della vostra anima. Se dopo esservi lealmente
impegnati, non ottenete nulla, richiamatevi pure alle riflessioni
altrui; ma, di grazia, datevi credito sufficiente
per cercare di ottenere prima dal vostro cuore quello
che volete dire a Dio (7).
Un
bimbo che vuol parlare alla mamma, comincia forse con il
correre in biblioteca a sfogliare un manuale di conversazione
o una raccolta di complimenti? Certamente no. I sorrisi
e le parole gli escono spontanei dal cuore e la mamma è
ben più contenta di queste imperfette manifestazioni
affettuose, che di tanti bei pensieri ricercati e irreali,
tratti da un libro.
Quel
che diremo al nostro buon Padre non sarà un capolavoro
poetico, ma ciò non è necessario. Se le nostre
povere parole saliranno dal profondo del cuore, troveranno
sicuramente il giusto sentiero che porta alla Vita, con
grande giovamento dell'anima.
Ordinariamente
il soggetto di meditazione durante l'anno -salvo differenti
attrattive- dev'essere la vita di nostro Signore (8).
Per
meditarne i misteri, in armonia con lo sviluppo della liturgia,
potremo senz'altro servirci del Vangelo come libro di fondo.
Esistono edizioni tascabili molto pratiche e maneggevoli
dove i quattro Vangeli sono unificati; queste opere presentano
il vantaggio di dare un racconto unico della vita del Signore,
evitando le ripetizioni e distinguendo i vari episodi ed
insegnamenti in modo chiaro ed efficace (9).
Con
questo volumetto in mano e la pratica, facile da acquisirsi
con un po' di esercizio nei vari metodi indicati nel paragrafo
precedente -cioè: se si tratta di un'idea,
«l'esercizio delle tre potenze»; se si tratta
di un fatto storico, «la contemplazione»;
se si tratta di un testo, la comprensione più
o meno profonda di questa o quella sentenza del Maestro-
abbiamo quanto occorre per giungere ad un'eccellente orazione;
a condizione di essere risoluti a esercitarci,
a renderci attivi anziché rimanere passivi.
Notiamo
però che rendersi attivi nell'orazione non vuole
assolutamente dire «meccanizzarsi», per usare
un gergo moderno. Se taluni, per un eccessivo rispetto del
metodo, preferiscono farsi mettere sotto il torchio piuttosto
che lasciare via libera allo Spirito Santo, ciò non
prova affatto l'inefficacia dei metodi, ma l'inesperienza
di chi li usa. Non si giudica l'uso dai suoi abusi.
È
evidente che, dopo avere ben preparato il soggetto dell'orazione
-come conviene fare per prudenza psicologica e rispetto
al divino Maestro-, se il Signore stesso si incarica di
sostituire l'argomento da noi preparato con un altro da
Lui scelto, la regola è di adattarci all'indicazione
che viene dall'alto. Non dobbiamo preferire ad ogni costo
il soggetto da noi previsto, ma sempre cedere il passo a
quello che il Maestro si degnerà di indicarci come
a Lui più gradito. Conviene sempre seguire lo Spirito
Santo senza pretendere di imporgli i nostri gusti.
L'attività,
allora, consisterà nel lasciare spazio alle lezioni
che il Signore vuole darci, senza inserire inutilmente nella
conversazione le nostre idee personali. Dobbiamo far tacere
i sentimenti inopportuni, saper ascoltare più che
parlare. Anche nell'orazione, come un po' dappertutto, ci
sono i chiacchieroni; guardiamoci dall'imitarli! Se il Signore
si degna di istruire più o meno direttamente l'anima
nostra senza curarsi della precedente preparazione personale,
non intralciamo la sua azione divina, ma intensifichiamo
il silenzio interiore per facilitargli così il compito
di farci ben capire ciò che vuole comunicarci. «Renditi
capace di accogliermi ed io entrero in te come un torrente»,
diceva nostro Signore ad un'anima devota (10); e a santa Margherita Alacoque: «Mettiti davanti a
me come una tela in attesa di essere dipinta».
«Renditi, mettiti»: una passività
così intesa è singolarmente attiva e di grande
valore.
Concludendo:
quando lo Spirito Santo ci lascia alle nostre forze, dobbiamo
impegnarci al massimo; quando invece mostra di voler fare
a meno della nostra azione, dobbiamo metterci umilmente
a sua disposizione e assecondarlo il più generosamente
possibile.
Perseverare
nell'orazione
Consideriamo
accettate e rispettate due importanti condizioni per il
buon esito dell'orazione: preparazione e lavoro attivo.
Non
resta che perseverare.
L'atmosfera
che avvolge la nostra anima è simile a quella che
circonda il nostro corpo: non sempre splende il sole. Vi
sono giorni tristi e grigi, senza parlare del periodico
ritorno dell'oscurità.
Nell'orazione
distinguiamo dunque tre casi: consolazione, desolazione,
calma.
Niente
di più facile che perseverare nella preghiera quando
Dio dona la consolazione; è superfluo
dimostrarlo.
Segnaliamo
tuttavia qualche ostacolo che tende non tanto a far abbandonare
la preghiera, quanto a diminuirne il frutto.
Il
primo ostacolo consiste nel confondere la consolazione sensibile
con i veri «tocchi» di raccoglimento infuso
e immaginarsi, perché si è provato «gusto»
nell'orazione, di essere stati favoriti con grazie mistiche.
Ciò può anche essere avvenuto, ma non sempre
è così. A questi casi si applica il consiglio
di san Giovanni della Croce; dopo aver detto: «Non
allontanatevi mai da un'amorosa attenzione verso Dio»-
parole che non fanno al caso nostro- aggiunge una considerazione
che ci riguarda da vicino: «Ma non desiderate mai
di ottenere favori singolari».
Vuol
forse dire che non dobbiamo desiderare la più stretta
unione possibile con Dio? Certo che dobbiamo desiderarla!
Ma, come dicono i teologi, altro è desiderare la
pienezza sempre più vasta di grazia santificante
- gratia gratum faciens- il che è vivamente
consigliato; altro è desiderare grazie «date
gratuitamente» - gratiae gratis datae: visioni,
rivelazioni, ecc.- il che è imprudente. San Giovanni
della Croce allude evidentemente a queste ultime.
Del
resto le anime favorite da autentici doni mistici sono di
solito ben lontane dal desiderarli, specialmente all'inizio;
ne hanno piuttosto paura. È compito del direttore
esperto incoraggiare queste anime se vede in loro solida
pietà e vera mistica. Questi due elementi uniti sono
meno rari di quel che credono certi intransigenti e meno
frequenti di quel che immaginano certi ottimisti.
Un
altro ostacolo dello stato di consolazione è credere
che Dio sia contento di noi perché ci sentiamo soddisfatti
di noi stessi.
Ieri
siamo stati disturbati da distrazioni ossessionanti; abbiamo
lottato coraggiosamente, ma ne siamo usciti senza grande
entusiasmo... Oggi abbiamo toccato «il settimo cielo»,
una consolazione dopo l'altra, ma con poco sforzo da parte
nostra: faceva tutto il Signore.
Sarebbe
ingenuità concludere che la meditazione di oggi sia
stata superiore a quella di ieri. In realtà, il valore
della meditazione dipende dall'intensità della nostra
carità in quel momento, ed è ben possibile
che io abbia esercitato una maggiore carità ieri
nella lotta, che non oggi nella consolazione. In teoria
la misura del merito non è stabilita dallo sforzo
con cui operiamo, ma dalla carità; in pratica, però,
la misura della carità -e dunque anche del merito-
è proprio lo sforzo.
Il
padre Lancizio, gia citato a proposito della preparazione
all'orazione, nota molto esattamente: «Credere
di aver mal meditato perché nell'orazione non abbiamo
provato alcun affetto devoto, è uno scrupolo da non
accettare». E precisa ciò che invece
merita un rimprovero:
«Se
prima della meditazione non respingiamo i pensieri estranei
(11).
«Se
durante la meditazione non respingiamo le distrazioni al
primo avviso della coscienza.
«Se
non meditiamo per tutto il tempo stabilito.
«Se
assumiamo una posizione poco rispettosa, tale da farci arrossire
se vi fossimo sorpresi da una persona devota.
«Se
permettiamo agli occhi di guardare ciò che accade
o alle orecchie di ascoltare quel che si dice attorno a
noi».
E
conclude: «All'infuori di questi casi la meditazione
è sempre buona». Questo per calmare
le inquietudini di molti e stimolare lo zelo di altri.
Accanto
ai momenti di consolazione, occorre fare i conti con la
desolazione, che costituisce la grossa pietra
d'inciampo per la maggior parte delle anime devote.
È
importante conoscere il sistema che Dio adotta ordinariamente
per fare progredire le anime nella santità. Agli
inizi, di solito, le colma di consolazioni. Per dare un'idea
di ciò che Lui e, per liberarci dalla tirannia delle
apparenze e per darci il gusto delle cose spirituali, il
Signore semina a profusione i suoi favori: attrattive numerose
e confortanti, fervore ardente di carità, continuo
desiderio di conversare con Lui... L'anima si sente attratta;
come non rallegrarsi di così dolce compagnia? Salgono
spontanee alle labbra le parole di san Pietro sul monte
Tabor: «Signore, è bello per noi restare
qui» (Mt 17, 4).
Ma,
a un tratto, tutto cambia. Dopo un periodo più o
meno lungo le attrattive si spengono, bruscamente o in modo
progressivo. Dopo uno splendido sole, cala la notte e le
tenebre sono tanto più scure, quanto più la
luce era stata smagliante; si ha la sensazione di entrare
improvvisamente, in pieno giorno, in un'oscura galleria
o in una miniera.
Qui
il Signore attende le anime al varco. La maggior parte -smarrite
e meno devote di quanto sembrasse- abbandonano tutto appena
non trovano più nell'orazione le consolazioni divine;
infatti, non seguivano Dio per amore, ma per godere i suoi
favori spirituali. Si credevano generose -e forse le si
considerava tali- e invece erano, almeno in parte, impercettibilmente
egoiste: non cercavano Dio, ma se stesse.
Il
Signore vuole che si badi, per così dire, non alle
sue mani, ma al suo cuore; non a ciò che concede,
bensì a ciò che Egli è. Al momento
giusto, quindi, ritira le consolazioni sensibili e abbandona
l'anima alle risorse della pura fede: vuole rendersi conto
se l'anima cerca Lui o i suoi doni. Dio vuole essere solo
nell'anima. Vuole essere amato per se stesso; quindi presto
o tardi, alle anime che intende elevare ai supremi gradi
dell'orazione, ritrae tutto il sensibile: l'anima deve rimanere
sola con Lui solo. Ecco la ragione di quelle strane
purificazioni, attive e passive («notte dei sensi,
notte dello spirito»), per le quali il Signore fa
passare le sue anime predilette (12), Vuole giungere al punto in cui nell'anima non vi sia che Lui.
Quando gli autori spirituali parlano della solitudine di
Dio nell'anima alludono a questa divina esigenza.
Beati
coloro che, sorretti da una generosità sapiente e
fervorosa, rimangono orientati al fine e perseverano infaticabili,
malgrado le prove non comuni e drammatiche delle aridità
e delle desolazioni.
Attenzione!
È in simili frangenti che si rivelano anime veramente
«interiori»; a che serve una devozione che si
pratica solo quando «fa piacere»? Se qualcuno
dei nostri lettori fosse in questo momento nelle tenebre
della desolazione, accanto al Salvatore nell'orto dell'agonia,
sappia che dalla perseveranza nell'orazione dipende il conseguimento
di grazie di cui neanche sospettano il valore, superiori
in virtù santificatrice a tutto ciò che potrebbero
desiderare.
Resta
ancora una parola da dire sull'orazione in stato di calma.
Il
perseverare in essa non richiede evidentemente tutta la
fatica necessaria per la preghiera desolata, ma vuole tuttavia
un certo impegno.
Ciò
è dovuto innanzi tutto al fatto che l'Invisibile,
tranne i casi in cui si possegga un grande spirito di fede,
non ci attira molto; ora, mettersi a pregare significa proprio
cercare il contatto con l'Invisibile.
Inoltre,
per raggiungere l'Invisibile o semplicemente per cercarlo,
occorre distaccarsi dalle apparenze in cui si compiace il
nostro gusto sensibile. Mosè, per incontrarsi con
Dio sul Sinai, abbandona i sandali alle falde del monte
e si distacca faticosamente dalla pianura. La salita ci
spaventa, mentre ci piace camminare in pianura, con i piedi
-s'intende- comodamente calzati. Quanti, se fossero sinceri,
dovrebbero abbandonare ben più dei loro sandali!
L'anima
generosa, invece, rischia di paralizzare i suoi slanci per
una difficoltà di tutt'altro genere. Adorare, lodare,
ringraziare... ben lo vorrebbe; anzi, è forse il
suo più vivo desiderio. Ma con che cosa adorare,
lodare e ringraziare il Signore? Essa non ha nulla di suo,
è la povertà stessa: come potrà mai
adeguare la sua povera preghiera all'infinita di Dio? Come
fare salire all'Altissimo qualcosa che ne valga la pena,
che non sia una derisione o addirittura un insulto! Dio
è Dio, essa e... essa. Come oserà accostarsi
alla maestà divina? È la lotta di Giacobbe
con l'Angelo: si è sconfitti in partenza e la vittoria
è sempre dell'Angelo.
Sono
in troppi a non avere un esatto concetto di preghiera o
a manifestare, nella pratica, di non aver compreso a sufficienza
quel che san Paolo chiama «il mistero cristiano»,
cioè il mistero della nostra «incorporazione»
a Gesù Salvatore e della «identificazione»
con nostro Signore nell'unita di un solo corpo mistico:
«Io sono la vite, voi i tralci», (Gv
15, 5). Gesù Cristo è il capo e noi siamo
le membra (13).
Per
chi vive nella luce di questa splendida dottrina non esiste
difficoltà. È vero, se dovessi amare Dio,
se dovessi lodarlo con qualche cosa di «me stesso»
o di «mio», mi troverei assolutamente incapace
di farlo: ogni mio omaggio al Signore in questa vita si
rivelerebbe inadeguato. Tuttavia non è questo che
si richiede. Solo Gesù Cristo è in grado di
offrire al Padre una gloria degna del Padre; ma, per l'insigne
misericordia di Dio, sono costituito una sola cosa con il
Redentore. Il Verbo, per salvarci, non si è accontentato
di farsi uomo divenendo uno di noi, ma ha voluto che ciascuno
di noi divenisse qualcosa di Lui. Questo mistero ci da la
chiave per comprendere tutto. Non si tratta di amare con
qualcosa di «mio», ma di pregare avendo a disposizione
la preghiera di Gesù Cristo; il quale, per completarsi
misticamente, ha voluto la mia partecipazione costituendomi
parte integrante della sua persona. La mia preghiera è
di per sè insignificante, ma la «Sua»
ha un valore infinito! Ebbene, io ho la possibilità,
il potere di appropriarmi della «Sua» preghiera;
anzi, ne ho il dovere.
Con
il battesimo ho ricevuto il potere di offrire -non in nome
della comunità cristiana, perché solo il sacramento
dell'ordine me lo permetterebbe, ma per mio proprio conto-
Gesù al Padre celeste. In questo consiste il sacerdozio
spirituale di tutti i cristiani di cui parla san Pietro,
funzione così bella che il primo papa ha definito
«sacerdozio regale» (14). Alcuni non gradiscono questa espressione applicata al semplice
fedele; non bisogna respingerla, ma interpretarla correttamente.
Essa è splendida e la realtà che esprime è
sublime.
Pregare
«cristianamente», nel vero senso della parola,
come accade tutte le volte che la Chiesa prega, significa
offrire Gesù Cristo al Padre in virtù del
sacerdozio comune acquisito con il battesimo. Nella maggior
parte delle preghiere mettiamo un po' troppo di noi stessi;
non che la buona volontà sia eccessivamente generosa
o che il dono di noi stessi non sia ardentemente desiderato
dal Signore; «troppo di noi» vuole dire che
non c'è abbastanza «Gesù Cristo»
nella nostra offerta.
La
terra e il cielo: siamo abituati a semplificare le cose,
ma a torto; in realtà dimentichiamo il terzo termine.
Fra la terra e il cielo, in mezzo ai due, c'è Gesù,
il mediatore divino con il quale siamo una cosa sola.
La
vera formula dei nostri rapporti con Dio nell'orazione è
espressa da san Paolo: «Vita vestra est abscondita
cum Christo in Deo». «La vostra
vita è ormai nascosta con Cristo in Dio»
(Col 3, 3).
Consideriamo
il rispettivo valore dei tre termini: Dio, Gesù Cristo
e noi.
-
Noi: zero. Non siamo esentati dal versare la nostra
goccia d'acqua nel vino del calice (15), ma proprio ciò ci fa capire
qual è la nostra parte: una piccola goccia d'acqua
di nessun valore.
-
Gesù Cristo, con la sua mediazione
infinita presso il Padre, a gloria del Padre stesso e per
la redenzione del mondo.
-
Dio. Al vertice di ogni cosa la santissima Trinità,
a cui ogni onore e gloria.
È
il per ipsum, et cum ipso, et in ipso della Messa:
per Cristo, con Cristo e in Cristo. Spesso non c'è
abbastanza Gesù Cristo nella nostra preghiera
di alter Christus.
«Dovete
dimenticare totalmente voi stessi», consiglia
il padre Guillore -e dopo quanto abbiamo detto, queste parole
non rischiano di essere fraintese -«fissando lo
sguardo su due cose soltanto: le divine operazioni di Gesù,
che tenete fra le mani come un tesoro da offrire; e il Padre
celeste a cui le offrite. Rivestirsi di Cristo consiste
in questo».
Può
forse esistere una spiritualità più dolce
e più profondamente cristiana? (16)
«Non
posso più fermare lo sguardo su di me; con questo
-scrive un'anima intimamente unita a Cristo- non
voglio dire di non vedere più la mia miseria; anzi,
l'esperienza delle ripetute cadute mi permette di conoscerle
fino in fondo. Ma cos'è tutto ciò, di fronte
all'infinita di Dio? Mi sembra che soffermarmi sulle mancanze
(17) costituisca un'ingiuria al Signore, che ha pagato i nostri
debiti e ci mette a disposizione i suoi meriti infiniti.
Se non avessi Gesù non oserei accostarmi al Padre:
ma, appoggiata al Redentore, rivestita di Cristo, mi sento
ardita perché ricca di tutti i suoi tesori».
1
Sant'Ignazio chiama questo procedimento esercizio
delle tre potenze.
2
Cfr. p. J.J. SURIN,
L'Amour de Dieu, libro I, cap. VII (i metodi),
e il cap. IX (la loro utilità e i limiti di essa).
3
Una sorta di piccola Imitazione di Cristo, in
cui tutti i pensieri vertono sull'inabitazione in noi delle
tre persone divine, dovuta al nostro stato di grazia (p.
R. PLUS,
Vivere con Dio, Marietti, Torino 1961/7).
4
Il P. Lancizio, gesuita polacco del XVII secolo e maestro
di ascetica, dichiara esplicitamente: «C'é
negligenza nella meditazione se la preparazione dei punti,
su un libro o a memoria, non è stata fatta con la
dovuta attenzione».
5
Secondo i buoni conoscitori, le Meditazioni sul Vangelo
del CAN. LUIGI BEAUDENOM (trad. it., 4 voll.,
Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 1962), sarebbero tra
i libri di meditazione più utili. Tutti conoscono
anche gli eccellenti opuscoli di p. PARRA, Bethanie e
Tiberiade, Apostolato della Preghiera, Tolosa.
6
«Che cos'è la fede?» fu
chiesto al Curato d'Ars. «È quando
si parla a Dio come ad un uomo». Eccellente
spiegazione da ricordare sempre.
7
«Mi permetti, mamma -domandava la
piccola Anna de Guigne- che alla Messa preghi senza servirmi
del libro?
«Per qual ragione mi fai questa domanda?
«Perché so a mente le preghiere del mio
libro (non aveva che sette anni la piccina) e spesso mi
distraggo leggendole. Invece non sono mai distratta quando
parlo con il buon Gesù; sai, mamma, quando si parla
con Lui, è lo stesso che quando si discorre con qualcuno,
si sa bene quello che si dice» (p. ETIÈNNE-MARIE
LAJEUNIE O.P., Un'anima di bimba: Anna de Guigne,
trad. it., Marietti, Torino 1927).
8
Nel dare questo suggerimento non intendiamo essere esclusivi.
Alcuni preferiranno considerare un pensiero o una frase
della messa del giorno, un salmo, ecc. Ogni soggetto che
nutre veramente l'anima è buono, come pure ogni metodo
che ottiene risultati salutari.
9
Senza alcun pregiudizio di altri, indichiamo il testo
dei quattro Vangeli raccolto in un'unica narrazione della
Mimep-Docete, 20060 Pessano (Milano). (N.d.T.).
10
Madre Maria Ponnet, della Visitazione di Vaissieux.
11
Considera l'ipotesi in cui si faccia la meditazione
poco dopo la sveglia del mattino.
12
Non è il luogo di soffermarci su argomenti troppo
specifici. Per lo studio dell'orazione mistica rinviamo
agli autori competenti, in particolare a san Giovanni della
Croce. Tra i moderni cfr. RENATO
DI MAUMIGNY S.I., Pratica dell'orazione mentale,
Marietti, Torino 1933, 2· vol.; Dom VITALE LEHODEY
S.O.C., Le vie dell'orazione mentale, Marietti,
Torino 1932.
13
San Paolo: [...] anche noi, pur essendo molti, siamo
un solo corpo in Cristo» (Rom 12,
5) «[...] ed Egli è il capo del corpo, cioè
della Chiesa» (Col 1, 18).
14
«Vos autem genus electum, regale sacerdotium,
gens sancta». «Ma voi siete la
stirpe eletta, il sacerdozio regale, la nazione santa»
(1 Pt 2, 9).
15
Ho sviluppato questo concetto nel libro In cristo
Gesù, cit., cap. II, pp. 146-163.
16
Gesu Cristo vi farà comprendere, se vi sforzerete
di amarlo, come la sua
Umanità costituisca una degna o ff
erta al Padre. Vi ha donato la sua Umanit à
, con tutte le sue so ff erenze, perché
possiate presentarvi coraggiosamente innanzi al trono del
Padre celeste [...] Dovete presentare e o ff
rire Cristo con un cuore umile e generoso, come
tesoro servito per la vostra liberazione e il vostro riscatto.
E Gesù vi o ffrirà con Lui al
Padre, come frutto prediletto per il quale Egli e morto;
e il Padre vi ricever à assieme al
Figlio, in un abbraccio pieno d'amore». (GIOVANNI
RUYSBROECK, Oeuvres, I, pp . 52-53).
17
Dal contesto emerge che quest'anima non accampa la scusa
dall'incorporazione a Cristo per dispensarsi dal correggere
i propri difetti. Siamo ben lontani dal pensiero di Lutero:
Pecca fortiter et crede fortius. Pecca forte, ma abbi
una fede ancora più forte.